Severino Chiarello Monforte
«L’ultimo trovatore in lingua veneta della terra di arzignano»
Così il Prof. Ettore Motterle amava definire Severino Chiarello Monforte nato ad Arzignano il 14 Giugno del 1923 da Giovanni Chiarello Monforte e da Regina Zonta di Chiampo. L’infanzia di Severino è contraddistinta, come per gli altri bambini, dalla frequentazione scolastica e dai giochi. Il primo evento della Sua vita, per lui meritevole di ricordo, è legato ad una richiesta della madre, donna di grande fede religiosa, che chiede al marito di potersi recare a Roma con la famiglia per l’Anno Santo del 1933.
La richiesta lascia sgomento il padre che, non avendo denaro, non sapeva come accontentare il desiderio della moglie. Si reca allora da un suo amico , compagno d’armi durante la prima guerra mondiale, che gli costruisce un carro leggero che lui trainerà, aiutato dal figlio Severino, con la sola forza delle braccia mentre la mamma Regina e le due sorelle Severina e Dorina sono sedute sul carro assieme ai pochi generi di conforto e ad un po’ di biancheria di ricambio. Il primo giorno di viaggio riescono ad arrivare sino a Monselice dove trascorrono la prima notte in una stalla ospitati da una famiglia di contadini che, in cambio dell’accoglienza, vengono allietati da un concertino musicale.
A quel tempo il padre di Severino era disoccupato e, per mantenere la famiglia, chiedeva l’ elemosina nelle frazioni limitrofe e nei piccoli borghi di montagna accompagnando il canto col suono della chitarra mentre la mamma contribuiva prima lavorando in una delle filande di Arzignano e poi mettendosi a fare la rigattiera e svuotando le soffitte dai vecchi mobili. Dopo un mese di viaggio arrivano finalmente a Roma dove, oltre ad assistere ai riti dell’Anno Santo, hanno modo di visitare la Città Eterna.
E’ in quell’occasione che Severino scopre la sua vena artistica , inizia a tenere un diario di viaggio in cui descrive le città viste e gli avvenimenti a cui ha partecipato e, al suo ritorno, lo presenta al maestro della scuola elementare.
Il maestro, piacevolmente colpito, lo vuole promuovere nonostante le assenze ma il padre non accetta ed insiste perché ripeta la terza elementare. A 13 anni scopre un’altra sua grande passione la musica ed inizia a frequentare la casa del maestro Nardi ad Arzignano dove impara i primi rudimenti del violino assieme ad altri ragazzi. Su suggerimento dell’insegnante a 16 anni va a perfezionarsi a Vicenza col maestro Graziadei ed è in quel periodo che inizia la frequentazione di Mons. Federico Mistrorigo concittadino di Castello. Grazie a lui inizia a conoscere i poeti vicentini tra questi Adolfo Giuriato, poeta dialettale, che per primo riconosce ed apprezza le doti poetiche del giovane. Oltre al violino Severino suona anche la chitarra assieme al suo amico Petronio Veronese che perderà la vita durante la seconda guerra mondiale al seguito dei partigiani sulle montagne.
Severino inizia la sua attività lavorativa a 16 anni all’ufficio del registro e lì viene notato dal direttore generale delle Officine Pellizzari, per la sua velocità nel dattilografare, e viene assunto come corrispondente commerciale. A 19 anni viene arruolato in marina e imbarcato sull’ Incrociatore Raimondo Montecuccoli a seguito dell’accordo che le Officine Pellizzari avevano stipulato con la Regia Marina e qui partecipa ad un corso per radiotelegrafisti; viene poi mandato a Pisa per tre mesi dove assiste al bombardamento con migliaia di morti e feriti. Il 9 settembre, dopo l’armistizio, scappa e torna a casa a piedi dove si si nasconde per un mese perché ricercato. Si iscrive allora ad un servizio per i lavoratori del regime che permetteva di non ritornare al fronte.
Guadagna la stima dei suoi superiori e viene inviato a costruire trincee a Cassino dove subisce i grandi bombardamenti americani e inglesi sulla città ed è a questo punto che riprende la via della fuga ed è inserito nella lista dei disertori. Da Cassino in un mese e mezzo, camminando di notte per sfuggire ai tedeschi, arriva a Campofontana dove si aggrega alla brigata partigiana capitanata dal famoso Bepi Marozin e riesce anche a conoscere Antonio Giuriolo, il “Capitan Toni” arzignanese morto a Lizzano in Belvedere il 12 dicembre 1944 dove si trovava con la sua brigata partigiana.
Quando Marozin va a Milano Severino non lo segue e si aggrega alla brigata Rosselli combattendo nelle zone di Campofontana e Campodalbero sino alla liberazione. Nella Piazza di Arzignano, durante la smobilitazione delle armi, Severino viene notato dalla donna che gli starà accanto per tutta la vita e che gli darà 7 figli: Rosalia Garatti;
i due iniziano una relazione amorosa di nascosto dalle rispettive famiglie per la differenza di età lei 15 anni e lui 22. Dopo 5 anni di fidanzamento, il giorno del ventesimo compleanno di Rosalia si uniscono in matrimonio ed è grazie a lei, che si accolla tutte le incombenze domestiche, se Severino può coltivare le sue passioni: poesia e musica.
Si trasferiscono all’interno della rocca del castello dove vivranno, grazie all’ospitalità del parroco per 4 anni. La vita al castello si svolge tra covate di colombi, allevamenti di galline, vendite di uova; nel frattempo nasce anche il secondo figlio e le mura del maniero fanno da sfondo ai concerti di violino che ogni sera Severino dedica alla famiglia. La sua vita lavorativa prosegue alle officine Pellizzari dove viene stimato e apprezzato da Antonio che lo utilizza anche come suo segretario personale. Sarà l’ultima persona a parlare con lui prima della sua morte prematura avvenuta nel 1958.
Lavorerà alla Pellizzari sino al 1963 poi aprirà una cartoleria in Piazza Marconi ed è in quel periodo che, trasferitosi nella zona dell’Asilo Bonazzi, salva dalla demolizione l’antica colonna del 400 che sorreggeva il Grifo (ora al Parco dello Sport ndr) nascondendola per 4 anni prima di donarla al Comune. L’ultimo capitolo di questo lungo racconto di Severino vuole essere dedicato alla persona che forse può essere definita come il grande maestro della sua vita: Antonio Pellizzari. La conoscenza tre i due avviene in età infantile quando erano accomunati dal gioco nei campi dietro le famose officine in cui buona parte dei capi famiglia trovavano lavoro.
Anche il papà di Severino lavorava “alla Pellizzari” e faceva, manualmente, il lavoro che poi venne sostituito dal maglio. Antonio è stato l’unico uomo di cultura Arzignanese a volere che, all’interno delle sue officine, i suoi dipendenti potessero conoscere ed apprezzare nel dopolavoro eventi musicali di grande livello ai quali spesso lui partecipava dirigendo l’orchestra.
Un approccio didattico dove, prima dell’esecuzione, il brano veniva analizzato e spiegato affinché tutti potessero goderne completamente. Fece venire ad Arzignano i nomi più prestigiosi della cultura italiana a tenere conferenze su svariati argomenti. Il noto pianista Pollini suonò ad Arzignano all’età di dodici anni. Era intimo amico dell’editore Neri Pozza che lo aiutava a portare i personaggi famosi ad Arzignano. Un giorno del 1942 Severino venne chiamato in Direzione dove Antonio gli manifestò il desiderio di assistere a qualche prova dell’orchestra diretta dal maestro Tacchetti in cui Chiarello suonava il violino.
Le musiche suonate erano principalmente arie di Verdi e Pellizzari propose di variare il repertorio inserendo anche Vivaldi e Mozart. Molti dei musicisti erano anche dipendenti delle Officine e questo permise di creare una nuova orchestra quasi interamente composta da maestranze. Il primo concerto fu tenuto nel ricovero antiaereo del palazzo Pellizzari e, alla presenza di famigliari e amici, vennero eseguite musiche di Vivaldi con partiture originali stampate dalla ditta Ricordi di Milano.
Spesso l’appartenere da esterno all’orchestra o il copiare le partiture permetteva anche di ottenere un posto di lavoro fisso all’interno dell’Azienda. Proprio alla fine del primo concerto Antonio annunciò che era nata la Scuola di Musica di Arzignano purtroppo chiusa qualche anno prima della prematura morte del suo fondatore. Oltre alla scuola di musica Antonio ha fondato anche il Coro Pellizzari.
Per questo ad Arzignano il suo mecenatismo e quello del padre vengono accostati a quello della famiglia Marzotto per Valdagno e della famiglia Olivetti per Ivrea. Qui termina il lungo racconto di Severino dove, chi ha trascritto, ha cercato di riportarne fedelmente il pensiero.
Severino è stato ed è un uomo semplice, sentimentale, che oltre al lavoro ed alla famiglia ha potuto trovare una oasi di pace scrivendo i suoi ricordi di un passato scomparso dove i protagonisti sono le persone, gli ambienti, le tradizioni della nostra terra fino a diventare prezioso documento di recupero. Nei suoi occhi di fanciullo sono sfilate immagini di campi, di boschi, di case, di stalle dove si facevano i filò alla luce dei lumi a petrolio, delle cucine dei contadini, delle camere col letto sui trespoli, delle immagini sacre alle pareti. Sono queste immagini, queste realtà, e l’amore per la sua valle gli ispiratori della sua poesia.
Severino è morto il 23 Settembre 2010
Il testo è stato letto ed approvato da Severino Chiarello Monforte che ne ha permesso la pubblicazione sul Sito della Pro Loco di Arzignano così come ha permesso la pubblicazione sullo stesso di 10 poesie da Lui stesso scelte.
co tuti là sentà fermi e contenti
spetavimo s’alsasse el gran telon
par ridere del dir e n’esclamassion
ne uscia quando el s’alsasse come un velo
e vegnea vanti un buratin pianelo
vardandose ‘torno, quasi stupio,
d’esser da putei vardà e seguio
cossì che:
davanti a toseti,
che varda la scena,
ghe ze pajasseti
che bote se mena,
che move le gambe,
che fa boche strambe,
barufa, se pesta,
se rompe la testa.
Se vede Brighela
co’ un toco de legno
che bate Tortela
co’ rabia, co’ sdegno
parchè ‘na matina
co’ la Drusolina
par quasi do ore
s’à fato l’amore.
Tartaja che bate
la lingua sui denti
parole malfate
e piene de stenti,
che’l dise: Paron
capir no’ so’ bon!
Com’elo ‘sto mondo?
Macaco! L’è tondo!
E fora che’l vegna
el sior Fracanapa
col palo de legna
e quelo che scapa
e anca Arlechin
che’l siga: Ciò, s-ciopa!
Vuto te massa o vuto te copa?
Oceti che sluse,
bochete che tase
co manca la luse
e taca la fase,
manine che bate
che par de le mate,
smissiar de careghe
co i parla de streghe.
Intanto là drento
a un toco de tela
un omo prepara
el sior Bigarela
vestio da bandito
– col s-ciopo ben drito
che sconto se meta
par far ‘na vendeta.
Po dopo ‘sto omo
come fare l’è uso –
co’ facia da tomo
el spia par un buso;
co’ l’ocio che gira
el varda e te mira
fra mile sudori
i so spetatori.
Scrutando l’océto
el dise pianeto:
Lassème che fassa
i conti de cassa.
I tempi ze duri
ma i schei ze sicuri.
E fora che ‘l vegna
el sior Fracanapa
col palo de legna
e quelo che scapa
e, anca Arlechin,
co’ tanto d’inchin,
che ‘l diga: Ciò s-ciopa!
Vuto te massa o vuto te copa?
Intanto là in fondo
co’ so nevodeto,
dal naso rotondo
ghe ze un bel vecieto
che fermo sta tento
e varda contento,
se i core, se i scapa
o se Fracanapa
co’ in man la paela,
ghe dà a Bigarela.
El mostra pendenti
un paro de denti
e varda el nevodo
che siga : Che belo
Brighela col ciodo
che copa l’oselo!
E dise : Ciò, nono
co’ du oci da sono
te piase anca ti?
Lu ghe dise de sì.
Finia la comedia, el sipario calava.
La zente, i putei ancor ritornava
a n’altra comedia; al viver profondo
‘t’un grande senario: el teatro del mondo
do’ dire se pole ‘na gran filastroca
de cose sucesse che impiena la boca,
che drento la ga de dolse e de amaro
e do’ un buratin el trova el so paro;
do’ la furbissia ze sempre regina
se i oci ga sora ‘na spessa coltrina
che al core impedissa de fare l’onesto;
ma un giorno el destin proveda pa’l resto.
Fa’ quel buratin che jera de legno,
te mete de fronte a ogni to impegno.
I angeli varda el to fare stupio
e ti là davanti te giudica Dio.
da la zente de paese e de contrà
jera ciamà comare
e par el servizio che la fasea
te la vedevi andare
fà una cicogna in volo là
‘ti posti pi impensà do ciamava la vita
do se versea la porta che ne fa esser qua.
La coreva svelta proprio là
do ghera mame incinte coi urti rivà ‘l colo
che le spetava el bel momento de urtare fora el fiolo.
Che la strada fosse lunga o sento metri solo
ela, par dovere, de profesion, dovea ciapare el volo
sensa badar se il tempo fasea piova o vento
opur tempesta o neve
el moto del sò mestiere el jera solo questo:
andare là se deve!
Perchè paron del fato ze solo e sempre il tempo
in sto momento grande che fa l’umanità.
La doveva andar là dove
un mistero grande, de fede e de amore,
gonfià gavea ‘na pansa,
la cuna de la vita de ‘na dona generosa
che ga dito sì nel farse tore in sposa.
Del proprio andar mestiere
la ghe ne fasea ‘na virtù
Sia de note che de giorno te la vedevi andar co’ pressia
in volta intorno sia a piè, che in bicicleta
portandose drio ‘na nera valiseta
co’ drento, preparà, i feri del mestiere
perchè no’ se podea savere come, in pratica,
l’evento el saria andà.
E la faseva strade, sentieri rabotà,
strosi e caesagne e
sensa far dificoltà o mugugnare lagne
l’andava drento a case
do’ palpitava un core de dona inamorà
che là al ciaro de na fiama, de un canfin o de un toco de candela
la stava per diventare ‘na mama felice, bela.
La ghe stasea visin a sta dona partoriente
per quietarghe l’ansia e ogni qual paura
e co’ la so pazienza la se toleva cura
che andasse tuto ben del lieto evento
e quando quel momento
che ze de la natura il più importante e vero,
rivava par davero
la ‘iutava col so fare el toso a vegner fora
disendo a quela mama
“la urta ben siora, de più, de più,
così, forza, sensa paura,
la tira el fià siora, più longo,
ancora forza, forza, forza,
la lassa chel respira, ecco, cossì, cossì,
forza forza siora , corajo,
dai, dai un altro poco
su, su forza forza
corajo siora forza ghe semo quasi
forza ghe semo forza forza
el sta vegnedo fora
forza ancora da,i dai,
brava, brava, brava eccolo, eccolo lè nostro…”
e ‘n’te quel ciaro sbiavo, de fiama tremolà
l’alzava quel putelo disendo concità:
“L’è un mas-cio
l’è un omo la varda quanto belo”
Momento del Signore
che manda l’aqua ciara
che fa volare in cielo gli angeli e i osei
che veste qua sta tera de fruti e de bei fiori
e fa che i veri amori i sia ricompensà.
Momento de la vita che se ripete, eterna,
sia nata in mezo al scuro, che al ciaro de lanterna
che ‘n’te sta tera vive giornate tristi o bele
ma gode dela luce del sole e dela luna
e de una infinità de sluseganti stele
regalo grande e belo che tuti qua godemo
de l’Essere supremo.
Grandessa de la gloria e segno de potenza
che domina il creato forgiandoghe la storia
col continuar la vita e le generassion che le cambia
nel’aspeto, man man che altre more
ma mai morir n’tel core fa l’amore e la verità.
Tegnù par le gambete e a mez’aria
alsà la ghe mostrava el cielo
‘sto toso, là, rivà.
La lo girava intorno vardandolo par ben
se tuto jera a posto de quel che più convien
nel corpo e ne la pele.
Se stentava a piansere perchè l’era infisà
co’ ‘na caneta in boca la ghe solfrava el fià
la testa pansa e culo la ghe vardava ben
po la lo lavava tuto e la lo portava al sen pì belo de ‘sto mondo
El jera el so lavoro che in fondo la fasea
ma vedérla ciapà da sto so gran fervore
a te provavi un serto che, un pizico n’tel core.
Parea che la strucase na bambola, na pua
e che sta cosa viva la fose tuta sua.
Intanto là so mama co za na teta fora,
‘spetava ansiosa el toso per darghe el late primo,
quel de la prima ora
Se nol savea tirare la jera la comare
che pian la ghe insegnava
in boca al toso, svelta, la ghe metea el boton
de quela teta bianca
più grande e bel bocon che tuti ‘se fà in vita
e po’ la mama la invita a esser più decisa in serti movimenti,
più franca, più lesta.
De ciaparghe ben la testa co’ le man da drio la suca
e ben vardarlo in facia chel’ toso no’ se incuca,
chel mova le ganase tirando coi lavreti
e che nol gabia freni n’tel movere i braseti.
La ghe disea a la mama, n’tel darghe le istrusion
“La ghe lo meta pian in boca ‘sto boton!
co’ sti dii, siora, la struca così
do’ adeso struco mì;
chel’ late vaga in vena el vegna for da lì.
Ma non la gabia pressa siora,
se l’late no vien fora el toso se indormessa
e no’ strucarghe in facia con forsa la testina
come che la fa ela!
La va tignù cossì, la varda
ecco cossì , vedela cossì
sta piccola testina
ecco cossì ,
cossì brava siora, brava
chel possa respirare, adesso el pol tirare.”
La stava lì a vardare ‘sta mama e ‘sto putelo
che le parea do statue scolpie in te’ ‘n capitelo.
El toso che frugnava i oci, naso, boca su quela teta calda
che, bianca fa ‘na cialda
e tuta rotondà,
la ze la mejo fonte che gà l’umanità.
La ghe insegnava come se fa a lavarlo
come se fa a infasarlo
a meterlo a dormire
e, prima de partire, la ghe disea al putelo
“Ciao sambelo, tira ben, magna tuto seto, fa pulito e sta chieto,
voléghe ben a to mama e fa l’galantomo
te deventarè grande presto, un vero omo”
Su tuta la stanza
mejari de forme
che salta, che danza.
Fantasmi ‘te l’aria
fra speci che manda slusori
e mobili veci
che par rida anca lori.
‘Na picola cuna
coerta de lana.
De fora la luna
la sluse lontana
e un ciaro leziero
domanda pardono
se drento la stanza
el vièn da ‘na sfesa;
…a tuta sospesa
la vita la dorme
fra magiche forme.
Manine che segna
nel vodo dei segni
e par che la tegna
‘na gran confarensa
co’ l’aria, co i legni
dei mobili grandi
e mover de lavri
de boca che ciucia,
de naso che incucia
i busi al respiro
e qualche sospiro…
‘Na bambola persa
nel mondo dei nati,
fra tanti bisogni:
de man che le vegna
a cambiarghe le fasse
de tete che tegna
un late de mama.
… du oci che vede
soltanto ‘na cosa:
.. el color tuto rosa
d’un toco de teta,
la roba pì santa …
.. la roba pì sc-ieta.
a divertir ve porto in alegria
do’ se festeja uno o più Beati o Santi;
do’ ingrumà se se ritrova in tanti
davanti a giostre e baraconi.
A la sagra.
La sagra de paese
o de rion
do’ i fasea la procession
co’ canti e soni,
stendardi a le finestre,
file de mocoleti,
pregar de zente e preti.
Là tanti odori
donava a l’aria un saor strano e birichin
che savea da fritole e d’incenso,
odor che ciapava el naso
fasendo roseghin
e se torna ancor putei
tirando al segno ‘t’i baraconi,
ai bussoloti
co’ le bale de pessa
e se varda ingolosii
muci de bomboni
che un dì ne fasea contenti,
ma ancò fa male ai denti.
El sonar de la banda
lento disperdea
‘na canson stonà
de pifari e tromboni
e fumava caldi e coti
i bei maroni
segnà in mezo e brustolà,
filava sucaro e tiramola
e le lechissie:
ciucioti, fuasse, bussolai,
jera cose sorele
al saltar de le fritole maresinà
‘te le paele.
L’odor d’ojo brusà
se sposava a l’aria
che jera coltrina de fumi
de odori
e i rumori
el parlar de la zente
el sigar de chi vendea
s’inalsava al sielo
che pian distendea,
durante el giorno,
nuvole
come nissoi a sugare
e, al calar de la sera,
te mostrava le so stéle
che parea spiare
su quel senario vivo
de zente e bancarele.
‘te l’aria se spandea
e zo vegnea
come la brina.
Dormi e sogna
‘sta canson disea.
Sogna e dormi
el granaro rispondea
a ‘sto canto a fil de vosse
a ‘sto coro d’altro mondo.
La sofita come sfondo
altra scena no’ gavea
cha ‘na mama.
Sul so sen la se strensea
tut’amor, tuta premure,
du gemei :
le so creature.
la so passiensa jera messa in prova.
‘Sto tempo imusonà e che no’ sbala
passarlo lu dovea drento la stala
che un teatro la devegnea a l’interno
par lunghe ore in ‘sta stajon, d’inverno,
ch’i speta passa el giorno e ogni sera
e vegna vanti pian la primavera.
Trovarse là jera ciamà: far filò.
Tuti ingrumà là drento, sentà zo,
chi su muci de fen, altri su paja
e le mame co’ i so toseti in gaja
scoltava el nono a racontar de streghe;
storie piene de barufar, de beghe,
vecie tanto quanto ze vecio el mondo
che te toleva al fià, quel pì profondo.
El dirle co’ vosse forte e sicura
metea a tuti un senso de paura.
I putei s’inquatava ‘te la gaja;
i grandi se strucava ‘te la paja.
L’aria s’impregnava de fantasia:
dal drago a l’orso, dal mago a l’arpìa,
da le streghe passava a la befana.
La stala deventava seria e strana.
E come el racontava ‘sta busia
parea che mago, orso e drago i sia
‘te la stala entrà sensa far bordèlo,
come nati i jera nel so sarvèlo.
‘Torno el girava i oci, po li sarava,
secondo el personajop che ‘l contava,
fasendo co’ la boca sèsti e versi
ch’i bafi ‘ndar ghe fasea traversi.
Cossì ben riuscia far l’imitassion
che in stala entrà parea fosse un leon
tanto che de vache e bo, ‘sto imitare,
le teste verso lu fasea girare.
Co’ i oci grandi, imagà, lo vardava,
lassando da la boca ‘ndar ‘na bava;
la coa dai penaci tuti bianchi
pì no’ sbatea ‘t’i grossi fianchi.
‘T’un colpo se zitia i pulsinei
scondendose ‘te l’ala fa’ putei.
I conej se fermava de magnare
co’ l’erba for da boca a pendolare
e tanti oci imbambolà i vardava
do’ lu fasea un segno o l’indicava,
come par dimostrar che jera vèro
el fantasiar del dire, el so pensiero.
Momenti i jera d’un scoltar sospeso
che zà vissù gavea al vecio spasséso
fato de legno e tuto incarolìo,
che zà da tempi indrio el le gavea sentio
‘ste fiabe e chi le contava, putelo,
avanti e indrio corea, sora de elo.
I gropi, stampà sui travi, parea oci
che vardasse tuti. Sora i zenoci
i putei li sarava pianelo,
ciapà dal sono, zovane ma belo,
che vive d’altre fiabe e fantasia
e ‘sti putei el roba e porta via.
Anca el socajo pì no’ lavorava.
Nessun sguaratar de pisso disturbava
‘sto silensio inciodà ‘te l’aria,
‘sto dir de ‘sta vosse solitaria.
Un sospiron i tirava tuti insieme
quando el finia le storie; a qualcun preme
andar de fora, drio el pajaro, al cesso,
ma, fin che ‘l se gustava el so sucesso,
l’aria, for vegnù ‘t’una bòta sola
da boche spalancà e da ogni gola,
la fiama zala del canfin smorsava
che sul canfin, balando, se brusava
lassando tuti instupidii al scuro,
come se fosse sta, quasi de sicuro
tanti jera ancora drio pensarla
‘na svelta man de strega pian smorsarla.
La stala diventava tuta scura,
metendo un senso a tuti de paura
che po passava, quando nel canfin
la fiama ritornava ‘te ‘l stupin.
Zo da la gaja ritornava i fioi.
Se riprendea a zugare co’ i fasoi
la tombola, a carte, cavacamisa
e, ancor ‘te ‘l molinelo, lana grisa
‘te l’aspo lenta fira e se dispana.
Putei, co’ la man tacà a la sotana,
parea instatuà nel star a vardare
el mover del piè, la rua girare.
Co’ ‘sto vardar curioso de putei
e un corer strambalà de pulsinei,
fra el rumegar dei bo e de lacavala,
tornava ad animarse ancor la stala
ridiventando scena vera e viva
che un gran pitor faria pur lu fadiga
butare col color sora ‘na tela,
tanto movimento ghè drento de ela.
se fasea al Sabo Santo
‘te quela messa lunga
e tuta un canto
co se spetava
el Signor resusitasse.
In quela cesa
piena de gran canti
ciamar par nome se sentiva
i Cherubini, i Santi
e ogni attension jera sospesa
a quel momento
a quel’atesa
che tolto vegna el nissolo
al Cristo re,
instatuà nel volo.
Co’l momento rivava
l’aleluja tuti cantava
e ‘torno l’altare
l’era un gran benedire,
un continuo fumegare d’incenso
statue Santi
preti mocoli, tuti quanti,
drento in cesa gh’era.
La statua da insima l’altare
no’ se movea.
Sempre là la jera
in posission de volo drito
come credere bisogna
a quanto ze sta scrito
co’ verità pì vera.
I putei continuava a racolare
disturbando el prete,
el predicare.
Le done se sforsava
de farli tasere
ma lori
no’ volea capirlo,
né savere el parché.
Par lori l’era resussità.
Altro no’ ghe interessava
che far ‘sto ciasso,
‘ste racolà,
‘st’inferno de cra-cra e de canti
che jera felissità e fede
par tuti quanti.
Tute insieme le sbatociava. Lontane
‘ndava de campanoni e campanele
le cante del bronzo; co’ le rondinele
se acompagnava corendose drio,
ligandose ‘te l’aria, apena finio,
co’ altro sonar de altro campanile
che da contrà a contrà, in ogni cortile
portava Pasqua, letissia, gioia.
Nessuna tola, quel dì, restava voja
del dolse preparà par l’ocasion
nel forno de contrà, sora el carbon.
El contadin vestio da festa,
col capelo infojà de olivo in testa,
finia la Messa, finio el cantare,
se fermava in paese a ciacolare.
Jera festa granda e l’orolojo
no’ tegnea conto de quel vojo
che ‘l contadin fasea nel lavorare.
A Messa solène gh’era d’andare.
Giorno spetà la Pasqua; dì de festa
par el core, par l’anima e la testa.
Doman se continuava: col luame,
co’ la pompa de l’ua, col verderame.
che te si confessà,
che te ghè l’anima bianca,
sensa pieghe e pecati,
lassa che te parla anca de Dio.
Dio, ‘l sa quelo che’l fa.
Dio regola tuto
e no’l paga solo al sabo.
Dio ‘l vole ‘l core,
ma ‘l lo vole tuto intiero:
no’l se contenta
de mèsa moneda
parchè Dio manda tuto
secondo ‘l bisogno.
Cussi ze pa’ ‘l fredo;
el lo manda secondo ‘l mantèlo.
Ricòrdate, Togno!
Solo Dio no’l pol sbaliare.
Dio ze ‘l sospiro infalibile
‘te’l fondo de l’anima.
Te ghè da saver che Dio
no’ magna, no’ beve,
ma giudica quelo che’l vede.
Dio promete ‘l perdono
a quei che i se pente:
no’l promete ‘l doman
a chi lo ofende.
Ricòrdate, Togno:
no’ aver pressia
se te si co’ Dio.
Dio sta co’ ti
e, dove sta Dio,
sta tute le cose.
El molìn de Dio
màsena pian, ma sotile
e, a chi crede,
Dio provede.
Togno!
Sémo fati tuti de tera crèa.
Dio ze sta el nostro vaselàro,
quel che ne ga formà.
Chi buta ‘na piera contro Dio,
questa, sta pì che sicuro,
la ghe ricasca ‘te la testa.
Ricòrdate, Togno:
de ora in ora
Dio ne meliora
e dove Dio mete la so man
ogni pensiero ze van.
No’ se move fòja
che Dio no’ vòja.
Ze gnente ogni fortuna,
ogni piassére, ogni desìo,
se no’l scominsia
e no’l finisse in Dio.
El Signore, Togno,
el lassa fare;
ma no’ strafare.
El Signore
castiga tardi
e, a chi se lo merita,
parfìn in abondansa.
Ricòrdate anca che Dio
perdona a chi ofende,
no’ però a chi tole
e mai no’ rende.
Questo, Togno,
no’ desmentegàrlo mai:
“Chi confida in Dio
el vedarà giorni mèjo
e chi in Dio fida,
ben se fida”.
Ricòrdate:
tuto ze ninte, Togno!
Dio, invesse, tuto!
Ze ‘sta ‘l nostro gran tradimento
a meter su la crose el Signore.
Ricòrdate ben, Togno,
che tradire ze pecao
e chi tradisse, dopo,
patisse.
Ze mejo esser tradii
che tradire,
anca parchè, el rimorso,
el ga sempre fato sofrire.
Ricordémose
che la pena del tradimento
la casca sempre sora
a l’omo traditore
e che, quando ‘l tradisse,
ghè sempre qualcossa
che, drento al cielo, more.
Ghè ancora de pì, Togno,
ricordate!
Chi tradisse, o ingana,
‘pol deventare anca sioro,
ma ze mèjo restar poareto
che esser causa de malani.
Dovemo tegnèr presente
che in ‘sta tera,
do’ anca lu l’è nato,
do’ ‘l ga anca lu vissù,
do’ ‘l ga fato tuto el ben
e pure ga tanto sofrìo
anca Lu l’è sta tradìo
sibén l’era l’omo pì giusto, pì bon:
Dio!
Ricercando punte di freccia, trova presso l’Altura di Arzignano, nella zona dietro l’attuale cimitero, degli scheletri con dei corredi funerari riconosciuti poi, da archeologi del museo di Verona, come scheletri di soldati longobardi.
Chiama il prof. Ettore Motterle che a sua volta informa immediatamente la soprintendenza delle belle arti. Alla fine porteranno alla luce le sepolture di 17 Guerrieri Longobardi complete di arredi, tutte ora conservate al museo di Verona.
Purtroppo Arzignano non è stato sensibile a queste scoperte e solo il museo locale di Montecchio Maggiore ospita qualcuno di questi resti.
Severino lascia i Longobardi agli esperti e si trasferisce nella zona delle Tezze ricca di resti di insediamenti romani o imperiali trovati nella località e scavando vicino ad un’altra cava abbandonata in località Canove, nella frazione Costo, scopre una grande pietra squadrata che si rivelerà essere, dopo le verifiche della Soprintendenza, parte di un’opera idrica di epoca imperiale.
Con l’aiuto del prof. Boscardin e del Comm. Fracasso viene creata l’associazione etnologica ed etnografica. Parte del materiale raccolto nel tempo da Severino e dai membri dell’Associazione, è stato esposto nel Museo Etnologico Etnografico della Valle del Chiampo inaugurato nel Maggio 2010 alla presenza di Severino e che l’Amministrazione Comunale titolerà alla sua memoria il 29 Ottobre 2011 con una cerimonia allo svolgimento della quale la Pro Loco darà il Suo contributo attivo.
Severino è stato, a suo modo, un precursore anche nell’etere. Nei primi anni ottanta apre una radio libera : “Radio Aldebaran” il nome luminoso della stella più brillante della costellazione del Toro. Il suo nome deriva dalla parola araba al-Dabaran, “l’inseguitore”, in riferimento al modo in cui la stella sembra seguire l’ammasso delle Pleiadi nel loro moto notturno, un nome adatto ad una radio che, con le sue trasmissioni, ha cercato di inseguire nel territorio uno scopo didattico.
Con molti sacrifici economici, vendendo anche un violino molto prezioso, inizia a trasmettere da casa sua e successivamente in un appartamento in affitto.
L’esperienza è durata 12 anni con trasmissioni incentrate sui filò, canzoni popolari locali, interviste e letture, tra cui quella integrale a puntate della cantica Inferno della Divina Commedia, senza tralasciare il dialogo telefonico con le persone. Il target era adulto e, soprattutto la notte, era facile ascoltare qualche richiesta di aiuto per la soluzione di problemi anche molto personali.
Anche in tutte queste attività c’è sempre la presenza discreta e generosa della Signora Rosalia, amata moglie del poeta, che lui rimpiange di aver trascurato. Quello che colpisce in questa “vestale” totalmente dedita a lui, è lo sguardo sereno nonostante la vita le abbia riservato non poche burrasche personali.
Non ultima e non meno importante la partecipazione di Severino alla fondazione dell’associazione ASFAPRETO sorta per aiutare le persone con problemi di tossicodipendenza.
Anche qui l’animo pionieristico di Severino compare con tutta la sua forza. Furono i primi, nel bene e nel male, nei primi anni 70 ad offrire un aiuto morale e psicologico ai tanti giovani tossicodipendenti della nostra zona. Giovani che purtroppo oggi hanno già concluso, per la maggior parte, la loro breve e travagliata esistenza.